La verità in Oncologia - Il punto di Comandone e del suo Team
L'INFORMAZIONE
Il malato, il medico,
la famiglia,
c’è una rivoluzione
nel modo di esporre
diagnosi e prognosi
Il mondo cambia, nuovi rapporti sociali e culturali, nuove scoperte nel campo dei farmaci, delle terapie e della tecnologia.
Comunicare la verità in oncologia è sempre delicato, ma si stanno aprendo processi di informazione e idee innovative.
Crescono il ruolo degli infermieri e dell’assistenza casalinga.
Il punto di: Alessandro Comandone - Ferdinando Garetto - Monica Seminara
S.C. Oncologia Ospedale HUMANITAS GRADENIGO - Torino
Riassunto
Il processo di informazione completa di diagnosi di tumore e della relativa prognosi è una pietra miliare dell’evoluzione del rapporto tra medico e paziente.
I quesiti fondamentali sono sempre i medesimi: quanto è utile che il malato sappia tutto? Ma soprattutto che cos’è la verità per il medico, il paziente e la sua famiglia?
Inoltre, si può ritenere che vi sia un diverso livello di verità tra la fase iniziale di malattia quando le possibilità di guarigione sono molto elevate, rispetto alla fase di ricaduta e di cronicizzazione della stessa, rispetto infine alla fase terminale?
Negli ultimi 20 anni in Italia sono avvenuti profondi rivolgimenti sociali e culturali: il ruolo sempre più importante negli infermieri nella cura del paziente, l’indebolimento della struttura famigliare, l’accesso a internet con un flusso di notizie spesso incontrollate e per contro una crescita culturale e in consapevolezza della popolazione.
Nell’ultimo decennio la scoperta di terapie basate sul profilo genetico-molecolare della malattia e la nascita della terapia personalizzata hanno aperto un nuovo fronte nel processo di informazione: occorre infatti spiegare al paziente i pro e i contro delle nuove terapie, il vantaggio rispetto ai trattamenti tradizionali, rappresentati soprattutto dalla chemioterapia, la sostenibilità finanziaria e la disponibilità delle stesse terapie.
Il passaggio dalla medicina paternalistica a una medicina di alleanza può permettere il realizzarsi di un cambio sostanziale nella rivelazione della verità tra medico e paziente.
Il percorso di conoscenza della verità nella storia clinica di malattia di un paziente oncologico è complesso, avviene in genere per gradi e si sviluppa sulla base dello stadio e dell’evoluzione della malattia. (1)
Non esiste infatti un processo cognitivo unico e valido per ogni persona. Le differenze si vengono a determinare su aspetti concernenti la personalità del malato, sulla capacità di comunicazione dei sanitari siano essi medici, infermieri o psicologi, sul tipo di malattia, sullo stadio e infine sul substrato culturale del paziente e del suo gruppo famigliare (1,2) È dunque impossibile concepire un tipo unico di comunicazione della notizia sulla diagnosi di tumore e sulla prognosi.
Va ancora considerato che la verità si distingue in modo netto tra fase diagnostica e comunicazione della prognosi.
Per quanto concerne la diagnosi è ancora valido l’algoritmo della Kubler-Ross, pur a 50 anni di distanza dal suo concepimento e con i profondi rivolgimenti sociali e scientifici avvenuti nel frattempo. (3, 4) Attualmente la prima diagnosi di malattia tumorale è generalmente accettata, essendo divenuto il cancro una malattia sociale con più di 1.000 nuove diagnosi ogni giorno, ma per contro con una speranza di sopravvivenza aumentata e ancor più di guarigione completa. (5,6)
La rivelazione della prognosi, quando possibile, investendo gli aspetti di relazione umana, psicologici e spirituali più profondi del malato, può aprire invece l’attesa a concrete speranze o può determinare il crollo delle aspettative e della progettualità esistenziale. (7)
Prospettare un tempo limitato di sopravvivenza o una percentuale di sopravvivenza molto bassa a 1 o 2 anni può essere richiesto dal Malato, che vuole pianificare il tempo futuro, ma può nel contempo determinare la fine delle speranze e delle capacità progettuali. (4,7)
La valutazione prognostica va dunque espressa con cautela e in relazione alla specifica richiesta del paziente.
La comunicazione della diagnosi
Come detto, il processo di acquisizione della verità da parte del malato a fronte di una diagnosi di malattia potenzialmente pericolosa o talora infausta segue ancora il processo definito da Kubler-Ross nel 1969. (4)
Si passa da una prima fase di negazione (“Si sono sbagliati, l’esame non è certo mio, io sto bene”), a una fase di rabbia che generalmente si concretizza sul medico o sulle persone vicine (“Quante volte ho detto che non stavo bene ”oppure” Sanguinavo dal retto e il medico mi diceva che erano le emorroidi”).
La rabbia può talora lasciare spazio alla depressione (“Non mi curo, tanto non serve”) a cui fa generalmente seguito una fase di accettazione con spunti positivi (“Credo alle cure, quel medico mi dà fiducia e sono certo di guarire”). Tali momenti positivi possono inframmezzarsi a momenti di transitoria depressione e di incertezza (“È mancata la mia amica che ho conosciuto in day hospital. Anch’io non ce la farò.”).
In molti momenti della fase di rivelazione della diagnosi, secondo il modello di Kubler-Ross, si configurano atteggiamenti di patteggiamento con la malattia stessa (“Se il tumore risponde alle terapie smetto di fumare”) o con il proprio credo religioso (“Se guarisco mi dedicherò a opere di beneficenza e di volontariato”). (8)
Nella fase di prima diagnosi la verità deve sempre essere rivelata e condivisa nel dialogo che risulta indispensabile e fondamentale nel rapporto medico-paziente. (9)
CONTINUA...