Esempi di sofferenza a causa della poliomielite
LA RESISTENZA
Nonostante la precarietà
per la “sopravvivenza”,
cinque pazienti colpiti dal virus
ci rammentano
come si può essere
attaccati alla vita
grazie al polmone d’acciaio.
È morto a Dallas
il “più longevo” di tale esperienza.
Da: Il mio giornale
Dico la mia - Evidenza - Salute - 20 Marzo 2024 - Ernesto Bodini
Di: Ernesto Bodini
Si sa che quando il corpo umano è affetto da una malattia acuta e/o cronica molto grave (specie se per molti anni), in molti casi prima o poi viene “sopraffatto” dal decesso. Ma anche se l’evento è così scontato, lo è meno quando il paziente ha “resistito” per moltissimo tempo non solo alla malattia ma anche alle particolari condizioni di sopravvivenza con l’aiuto della tecnologia, empirica o moderna. È il caso, ad esempio, dell’americano Paul Richard Alexander (Dallas 10/1/1946 – 11/3/2024, nella foto ad inizio malattia e durante), avvocato e scrittore, noto per essere sopravvissuto a un’epidemia di poliomielite avendo contratto il virus nel 1952 e che lo rese paralitico a vita, tanto che trascorse il resto dei suoi giorni prevalentemente collegato al polmone d’acciaio a causa, appunto, di insufficienza respiratoria. Ed è proprio di questi giorni la notizia della sua scomparsa e passato alla storia essendo stato il paziente più longevo “inglobato” nel polmone d’acciaio per 70 anni. L’americano Alexander poteva lasciare il suo polmone d’acciaio solo per alcune ore dopo aver imparato a respirare, e usava un bastoncino di plastica con una penna attaccata per battere su una tastiera e riuscire a comunicare. La sua storia fece il giro del mondo, influenzando positivamente chiunque, e io credo che abbia commosso anche i due scienziati statunitensi del rispettivo vaccino antipolio: i proff. Albert B. Sabin (1906-1993) e E. Jonas Salk (1915-1995), la cui realizzazione sarebbe avvenuta qualche anno dopo. Una vita intensa quella di Alexander: il fatto di non poter più respirare autonomamente non gli aveva impedito di diplomarsi e laurearsi, conseguendo nel 1978 e nel 1984 due lauree all’Università di Austin nel Texas, prestando poi giuramento come avvocato, e nel 2020 pubblicò un libro di memorie intitolato Tre minuti per un cane – La mia vita in un polmone d’acciaio”, la cui stesura aveva richiesto ben otto anni, avendolo potuto scrivere tramite un bastoncino di plastica attaccato a una penna, o dettando le parole ad amici e parenti. Inoltre, in quegli anni conobbe anche l’amore: una ragazza di nome Claire che aveva accettato di sposarlo, ma le nozze andarono a monte a causa della contrarietà della madre di lei.
Nel corso degli anni, grazie al progresso scientifico Paul avrebbe potuto utilizzare ventilatori artificiali più moderni, permettendogli una maggior condizione di movimento, ma non ne fruì essendosi ormai “abituato” alla sua condizione e non volendosi quindi separare dal polmone d’acciaio. Era questa la comfort zone, ovvero il luogo in cui tornare dopo brevi periodi che riusciva a trascorrere respirando attraverso la gola grazie alla tecnica detta del “frog breathing” (respiro da rana, o “respiro glossofaringeo”). Una scelta che gli fu rispettata fino all’ultimo.
Dalle cronache, che riportano interviste da lui rilasciate alla giornalista Linda Rodriguez Mc Robbie del Guardian, Paul amava parlare della poliomielite, del polmone d’acciaio e della sua vita, e questo nel timore che il mondo dimenticasse quello che la poliomielite aveva rappresentato prima del vaccino, ciò che lui era riuscito a conseguire nonostante la malattia e in condizioni di grande disagio…. Ma anche altre d’acciaio vi erano delle aperture plastificate per vedere il corpo del paziente, e delle fenditure di gomma in cui gli operatori inserivano le braccia e che si chiudevano ermeticamente quando non usate. A qualche centimetro dal viso del paziente era posto uno specchio con una particolare inclinazione che gli permetteva di osservare quanto lo circondava.
E com’era la vita nel polmone d’acciaio?
Un medico e un’infermiera si occupavano del paziente. La vita dentro questa sorta di “testuggine”, come la definiva Rosanna Benzi, era difficile e terrificante in quanto poteva accadere che la chiusura ermetica del polmone si rompesse e che i pazienti quindi dovessero essere ventilati tramite maschera; quelli meno gravi potevano respirare autonomamente per intervalli limitati o usare il respiratore soltanto di notte. Bloccati nel polmone d’acciaio si potevano vedere solamente la fine del respiratore, il soffitto e uno specchio che rifletteva il proprio viso o una mensola di vetro su cui i libri venivano disposti a faccia in giù per far leggere il paziente. Il ronzio del motore di questa apparecchiatura e il sospiro regolare delle pompe fornivano il sottofondo all’interno. Alcuni trovavano i rumori rassicuranti e confortanti, ma per altri erano il costante ricordo della loro fragilità e della loro condizione precaria di vita. In sostanza, si viveva con la costante paura che il macchinario potesse rompersi da un momento all’altro, e non c’era da stupirsi se per questa ragione alcuni pazienti diventavano psicotici nel periodo della cura. Mi sono espresso non al presente in quanto questa apparecchiatura è praticamente quasi abbandonata, soprattutto con l’invenzione del pallone Ambu (Air Mask Bag Unit) per merito del danese Henning Ruben (1914-2004), e con l’introduzione della complessa strumentazione di cui sono dotate le moderne e sofisticate terapie intensive gestite dagli anestesisti-rianimatori, a partire dal 1953, adottate per diversi casi di patologie particolarmente gravi inerenti agli apparati neurologico, cardiaco, respiratorio. Molto utili si sono rivelate anche nel periodo della pandemia Sars-CoV-2, salvando molte vite umane.