La dannazione di essere i migliori
LA LEGGENDA
Una riflessione
sulla morte
di Diego Armando
Maradona
Di: Davide Deangelis
Una partita per entrare nella storia. Una partita per descrivere un uomo. Novanta minuti per diventare per sempre una leggenda del calcio, mostrandone l’essenza, e la propria, come persona. In quella sfida contro l’Inghilterra teacheriana, Maradona vinse la sua battaglia da argentino e iniziò a perdere quella come uomo. Troppo grande la sua personalità per essere confinata al di qua o al di là del bene o del male.
Due goals, esemplari di una condotta morale antitetica: uno invalido e scorretto, di mano, ingenuamente convalidato, accettato socialmente a posteriori, per quella triste approvazione che il mondo osserva verso l’astuzia, e l’altro sublime nella sua dinamica, perfetto stilisticamente. Avversari saltati come birilli, difensori pietrificati come nani da giardino troppo lenti per inseguire o fermare una corsa naturale e disinvolta: 70 metri in dieci secondi con la palla al piede e continui cambi di direzione. Con la straordinaria lucidità di voler realizzare quanto era apparso nella sua mente, quanto si era configurato nella sua corteccia pre-motoria, senza subire infinitesimali rallentamenti elaborativi nelle aree associative. Istinto puro trasformato in movimento. Questo era Maradona. Capace solo di eccessi, perché il calcolo, inteso nel senso etimologico di ragionevolezza, non è qualità di chi eccelle senza cadere. L’altare e la polvere sono i destini dei più grandi. Di coloro che hanno una personalità così espansa da sembrare contraddittoria e risultare controversa. Quelle anime dannate che uniscono o dividono, a cui non si può rimanere indifferenti perché provocano delle emozioni e toccano delle corde troppo profonde per rimanere inascoltate. È la maledizione dei migliori, degli inarrivabili. Di coloro che stanno stretti in tutte le classificazioni e non per nulla si chiamano fuoriclasse. Troppo irraggiungibili per emularli, troppo complessi per comprenderli. Sono mostri, ossia meraviglie, che possiamo solo ammirare. Così sconosciuti a loro stessi, attratti dalla vertigine dell’esagerazione, perennemente sull’orlo della perdizione, in bilico tra creazione e distruzione. Perché nel suo assoluto disordine, Maradona creava. Quel magma di sentimenti, pulsioni, passioni si agitavano nell’animo per poi esplodere come un vulcano in eruzione. È il fascino del disordine, dell’energia accumulata che inspiegabilmente riesce a sprigionarsi e riversa la sua carica altrove, innescando un moto perpetuo. Un equilibrio instabile che per conservarsi deve mantenersi in movimento. Fermarsi significa cadere, significherebbe pensiero, ordine.
Ordo amoris (amore ordinato) scriveva Scheler (nella foto), l’ordine della natura, dell’esistenza, le sue regole morali, biologiche, che assicurano con la loro costante ripetizione la sopravvivenza, l’accettazione sociale. Il genio è qualcosa di innaturale, ecco perché nasconde in sé il suo stesso seme distruttivo. Il talento puro non può venire a patti con le regole, con il diritto, perché sarebbero una costrizione. Un limite che ne impedirebbe l’esplosione. Un vincolo che ne tarperebbe la realizzazione.
È un’imposizione intimata dalla vita, che confligge con la propria autenticità. Per tale ragione, gli spiriti alti o ottemperano alla propria essenza, ascoltano la loro voce interiore o accettano di stare nel mondo, si rassegnano alla salda e sicura mediocrità. Sono albatri che spiegano le loro ali, librandosi alti nel cielo, ammirati da chi non potrà mai volare così in alto e con pari leggiadria. Disinvolti cavalcano le correnti, volteggiano superbi. Condannati a non fermarsi mai, perché una volta a terra, prigionieri delle leggi della fisica, come recita Baudelaire, divengono “maldestri, vergognosi, brutti e comici”. E quanto divengono ridicoli gli spiriti nobili, quando si piegano alle richieste della società dell’immagini, delle esigenze televisive, dei capricci dei conduttori, dei dettami della pubblicità, delle blandizie dei politici, delle lusinghe degli sponsor! Rinnegano loro stessi e diventano altro da sé, per assecondare la fame di profeti di cui soffre la nostra società, che crea e divora incessantemente nuovi “santi ed eroi”, fagocitandoli bulimicamente per compensare il vuoto messianico da cui è afflitta, contribuendo ad accelerarne la corsa verso il precipizio, dove queste personalità eccezionali dirigono inevitabilmente la propria vita. Da Mozart a Schumann, da Caravaggio a Van Gogh, da Senna a Maradona, passando tra tutte le icone della musica, in ogni ambito in cui si esprime la capacità ideativa e artistica dell’uomo, il mondo sembra troppo angusto e maldisposto per consentire di sperimentare eternamente, soddisfare la propria vis creativa, appagare la propria pulsione visionaria. Perché purtroppo come ha ben spiegato Huizinga nel suo “Homo ludens”, ogni gioco ha le sue regole, compreso il calcio. Ed a Maradona più del calcio importava il pallone, che non avrebbe mai voluto calciare, come invece ha fatto con la vita, e da cui ha ricevuto calci a sua volta. Quel pallone incollato al piede come un’appendice naturale, da difendere dribblando ogni rivale, ogni avversario, ma non l’intima povertà e la profonda malinconia provate nella vita.
Ecco perché adesso è giusto immaginarlo correre spensierato, come quel bambino che in fondo è sempre stato, in un campo di calcio verde e levigato, senza dover più incantare nessuno, ma esibendosi, finalmente, solo per se stesso.