Quando la natura decide diversamente...
IL PERSONAGGIO
Lizzie Velasquez,
donna americana affetta
dalla Sindrome di De Barsy,
uno dei circa trenta casi
al mondo documentati.
Per una riflessione
è forse utile
conoscerla da vicino.
Di: Ernesto Bodini
L’arcipelago delle malattie rare è oggi molto vasto, ma la rarità assume un significato particolare quando è rappresentato dalla Sindrome di De Barsy.
È forse troppo retorico affermare che “Madre Natura” ci riserva doni e privilegi ma anche sventure, tant’é che con molti esseri umani talvolta non è stata e non è per nulla generosa... È il caso dell’americana Lizzie Velàsquez, una giovane di 29 anni (nata nel 1989 ad Austin nel Texas), considerata molto volgarmente la donna “più brutta del mondo” per via del fatto che è alta 1,57 metri, pesa 27 chilogrammi ed ha una magrezza senza pari.
Principali caratteristiche della Sindrome di De Barsy (DBS), una malattia rarissima (circa trenta casi al mondo, Lizzie Velàsquez compresa) che impedisce al corpo di accumulare e conservare il grasso costringendo il soggetto ad ingerire cibo in continuazione: ogni 15 minuti, ossia circa 60 volte al giorno. Più esattamente questa patologia, di origine genetica (descritta per la prima volta dal neuropsichiatra belga Thierry de Barsy (1941-2016, nella foto) e altri, non permette al corpo di immagazzinare il grasso ingerito come nel caso di Lizzie, che ha la necessità di un continuo apporto di cibo e calorie per sopravvivere, assumendo dalle 5 mila alle 8 mila calorie giornaliere. Tale sindrome, come spiegano gli esperti dell’Osservatorio Malattie Rare (OMAR), è altresì caratterizzata da dismorfismi facciali (rime palpebrali rivolte verso il basso, sella nasale piatta e larga, con aspetto progeroide (tendenza all’invecchiamento precoce), fontanella ampia a chiusura tardiva, iperlassità articolare, movimenti atetoidi e iperreflessia, ritardo della crescita pre e post-natale, deficit cognitivo, ritardo dello sviluppo, opacità corneale e cataratta. Una malattia dunque che suona come una sfida alla Medicina, in particolare ai genetisti e ricercatori; una “sfida” che ha raccolto anche la paziente Lizzie, affrontando quell’incauta definizione di mostro da parte della società che l’ha etichetta come la “donna più brutta del mondo”.
L’inizio di questa sfida è stato a prezzo di grandi sacrifici che tuttavia non le hanno precluso il raggiungimento di una grande rivincita sulle offese subite e mosse da cattiveria banale e gratuita, tanto da terminare regolarmente il suo percorso accademico, diventare una scrittrice e una speaker motivazionale in giro per il mondo. Tra i numerosi interventi pubblici, alcuni compaiono sui social network, come quello pubblicato on-line da The Huffington Post il 17 marzo 2016 (a cura di Carolina Moreno), che spiega come è riuscita a trasformare l’odio altrui in amore per sé stessa, specificando che per creare sicurezza in sé stessi si ha bisogno di tre cose: il coraggio, la perseveranza e il senso dell’umorismo. Elementi comportamentali che hanno dato seguito ad una esposizione tratta testualmente dal video in questione. Quando ero in Malesia la scorsa estate (2015) – ha ricordato – un uomo raccontava che sua figlia veniva più volte bullizzata a scuola e una volta, tornando a casa, gli disse: «Papà, cosa posso fare?», e lui rispose: «Puoi fare due cose: rispondere e non fare realmente qualcosa, o fare quello che fa Lizzie». Non dimenticherò mail il giorno in cui trovai il video sulla “Donna più brutta del mondo”... ti senti come se qualcuno ti avesse picchiato attraverso lo schermo di un computer. Io penso sia uno strumento per dire a te stessa che non devi prestare ascolto a queste cose. Non vedo i bulli come le persone che sono: li vedo come persone che feriscono se stessi. Ci ho messo molti anni per essere in grado di dire: «Non penso di essermi mai sentita così sicura nel corpo in cui sono, come il giorno in cui feci il mio primo discorso e, a un certo punto, alzai lo sguardo e avrei potuto sentire uno spillo cadere nella stanza: era tutto così tranquillo. Realizzai che ognuno nella stanza era connesso in maniera differente alla mia storia, e quando tutto finì, conclusi: questa deve essere la mia vita».
Non c’é dubbio che non è un eufemismo affermare che questa breve testimonianza è indice di un inizio di “scuola di vita”, da cui trarre il miglior senso della stessa come ci fa anche comprendere lo psicologo austriaco Alfred Adler (1870-1937), il quale affermava che: – quasi tutta la civiltà è merito degli sforzi fatti per vincere il senso di inferiorità, spesso causato da un difetto fisico –.