Non solo medicina: andiamo alla scoperta della "resilienza"
LA RIFLESSIONE
Un viaggio
nella natura umana
tra mille intuizioni
e altrettante riflessioni.
“Si sta come d'autunno
sugli alberi le foglie”.
(Giuseppe Ungaretti)
Di: Davide Deangelis
“Tutte le famiglie felici si assomigliano tra loro, ogni famiglia infelice è infelice a suo modo”, così recita il celebre incipit di Anna Karenina, come se l'intento del suo autore fosse di ricordarci l'unicità della sofferenza, l'incomprensibilità della vicissitudine tra bene e male. La vita di ognuno di noi infatti non è null'altro che una continua alternanza tra gioia e dolore, tra salute e malattia; una danza (non macabra, sebbene possa coinvolgere anche la morte) da una condizione di pienezza ad una di svuotamento, da un' acquisizione ad una perdita. È una immutabile ed equa legge della natura, cui tutti gli esseri viventi debbono sottostare: dal delicato meccanismo sonno-veglia che consente al cervello di “dimenticare” dati ed informazioni “inutili” o emotivamente indifferenti al ciclo del carbonio o dell'acqua, dai processi di rimodellamento osseo alle fasi concentriche ed eccentriche della contrazione muscolare, dai meccanismi di polarizzazione e depolarizzazione della membrana cellulare ai sistemi anabolici e catabolici dell'organismo.
In questa unione degli opposti si estrinseca ad un tempo la complessità dell'esistenza biologica e la fragilità di quella psicologica, intesa come consapevolezza esistenziale e ricerca di senso. Nel quotidiano ogni persona esperisce la sensazione di mancanza, di bisogno, di paura, di perdita e percepisce su di sé e, di riflesso negli altri, la condizione di precarietà, di caducità e per estensione sperimenta quanto vani siano i suoi affanni e come transeunte sia la sua vita. In questa fragilità, tuttavia, l'uomo riconosce se stesso ed il suo destino, abbracciando idealmente tutto il genere umano, compreso quello che lo ha preceduto e che lo seguirà. Accettare la propria fragilità, significa riconoscere la propria finitudine, nonostante la nostra società tecnologica e tanatofobica si ostini ad offrirci delle illusioni, dei paradisi artificiali al fine di renderci dimentichi della nostra mortale condizione. Ma il paradosso della finitezza umana consiste proprio nella comprensione e nella compassione dell'intero genere umano, cui apparteniamo e siamo accomunati da uguale sorte biologica.
Da questa condizione deficitaria e di bisogno l'uomo ha creato la cura, la relazione, il diritto; dalla manchevolezza, dalla insufficienza è sorta la società, inizialmente come sopravvivenza, poi difesa verso terzi ed infine aggregazione ludica e spirituale.
Tutta la storia dell'uomo potrebbe essere letta come una fuga dalla catene della corporeità, dai limiti della vulnerabilità, dalle briglie terrene: ma l'uomo è e sarà sempre terreno e terrestre. Possiamo volare, possiamo proiettarci nel cielo, compiere evoluzioni, persino allunare, ma come ci ricorda il mito di Icaro e l'etimologia, l'uomo (homo, in latino) appartiene alla terra (humus) ed ad essa ritornerà. Se questa sorte è comune ad ogni uomo, unico ed irripetibile è il modo con cui ciascuno la interpreta; personale è la nostra visione esistenziale, individuali le nostre sensazioni, irreplicabili le intuizioni, irriproducibili le conclusioni. Perché, se come scrisse John Donne “nessun uomo è un'isola” e tutti siamo pezzi di un continente, allora non esiste una zolla, un frammento uguale all'altro; la terra di cui siamo fatti è diversa per qualità e quantità, per composizione e integrazione plastica. Siamo tasselli insostituibili nel grande mosaico dell'esistenza, ecco perché le nostre reazioni ad eventi simili, non saranno mai prevedibili; ad un determinato input non sarà possibile preconizzare con certezza un dato output.
L'imprevedibilità è la caratteristica fondamentale della vita per buona pace di quanti considerano l'uomo una macchina, convinzioni nate nel solco delle concezioni meccanicistiche e deterministiche che dal dualismo anima-corpo di Cartesio condussero ai riflessi condizionati di Pavlov ed alla scoperta del DNA di Watson e Crick.
La nostra mente, le nostre risposte, le nostre decisioni, i nostri convincimenti, i nostri valori non sono iscritti rigidamente nel nostro codice genetico; l'uomo non è la somma dei suoi geni, anche perché condividiamo il 98% di quelli dello scimpanzé, il 94% di quelli del gatto e il 90% del moscerino Drosophila.
Il nostro sentire, i nostri agiti il nostro vissuto è qualcosa di più, qualcosa che non si può ridimensionare. È e rimane un mistero, nel senso originario del termine, ossia di silenzio, di labbra serrate, di paralisi, di sospensione. L'uomo e la sua sofferenza sono inesplicabili alle comuni attribuzioni scientifiche, perché appartengono ad altre categorie di senso, non possiedono lo stesso linguaggio e pertanto non sono ad esse compatibili.
Per tale ragione di fronte ad un evento avverso, una situazione drammatica, come un lutto od una malattia grave, l'uomo reagisce in modo personalissimo.
Possiamo citare gli studi comportamentisti della dottoressa Kubler-Ross o quelli antropologici di LeBreton, o ancora la fenomenologia di Elias o la medicina narrativa di Byron, ma la morte ed il dolore rimarranno un momento unico per chi lo subisce proprio perché unica è la persona umana: “Ognuno sta solo sul cuor della terra” scriveva Quasimodo indicando la precipuità, la singolarità della condizione umana.
CONTINUA...