Voci del '900 - Madre Teresa
LA DETERMINAZIONE
Madre Teresa
La cura che trasforma
Che cosa può insegarci
una piccola suora
con un sari bianco,
vissuta nel secolo scorso?
A cura di: Ferdinando Garetto
Mai come in questo anno si è parlato della necessità di potenziare i servizi di cure palliative per dare risposta ai drammatici bisogni che il Covid-19 ha mostrato in tutta la loro imponenza (ma che c’erano già ben prima della pandemia). E intanto si riaccende la discussione bioetica sul fine vita, come se il referendum sull’eutanasia fosse l’unica strada possibile.
Che cosa può insegarci una piccola suora con un sari bianco, vissuta nel secolo scorso?
Tradizionalmente la “data di nascita” delle cure palliative moderne è considerata il 13 luglio del 1967, inaugurazione del St. Christopher Hospice fondato da Cicely Saunders, sulla cui figura abbiamo già detto qualcosa nelle nostre “Voci del ‘900”. Ma secondo molti studiosi dell’argomento c’è un’altra “pietra miliare” dell’assistenza ai morenti sviluppatasi nel XX secolo. Ci riporta ad una figura ben nota, premio Nobel per la Pace nel 1979, ma che forse non è così immediatamente collegata nel sentire comune al mondo delle cure palliative.
In un contesto sociale e culturale completamente diverso da quello londinese della Saunders, nel 1954 viene aperto da Madre Teresa a Calcutta il Nirmal Hriday, per l’accoglienza dei numerosissimi miserabili che morivano per strada. Una decisione istintiva di fronte ad un’urgenza drammatica (“il posto più opportuno per la nostra gente per riposarsi prima di andare in cielo”) ma che si trasformò in un luogo di cura “che aveva la capacità di trasformare” coloro che vi andavano “per pulire a quelle donne e a quegli uomini le ferite, a liberarli dagli escrementi, a tagliare loro i capelli, a cercare di imboccarli, anche solo a strofinare i pavimenti e le verande e (...) ne uscivano in qualche modo cambiati”. Per quanto l’impostazione del Nirmal Hriday sia stata oggetto di critiche da parte di movimenti di opinione contrari all’operato di Madre Teresa (probabilmente mossi da un non disinteressato approccio pregiudiziale, con improponibili confronti con gli approcci farmacologici e strutturali del “ricco” Occidente) e che non si possa escludere una descrizione “agiografica” da parte dei biografi favorevoli alla sua figura, è indiscutibile che il Centro possa essere considerato uno dei primi Hospice, tuttora riferimento per una significativa fascia della popolazione e conforme ai principi e ai valori delle cure palliative. Così lo descrisse Giovanni Paolo II: “Hriday attesta la profonda dignità di ogni essere umano. La cura amorevole che qui vediamo testimonia la certezza che il valore di un essere umano non è misurato con l’utilità dell’ingegno, con la salute o con l’infermità, con l’età, il credo o la razza(...)”.
A distanza di quasi 70 anni, qual è dunque l’attualità di quella straordinaria esperienza?
Mi sembra importante evidenziare alcuni punti:
- il “modello” di Madre Teresa è diversissimo da quello della Saunders, ma entrambi nascono dalla consapevolezza comune che il dolore, la sofferenza, la morte sono temi propri dell’essere umano, che vanno al di là delle culture e delle nazionalità.
Le cure palliative non sono un “lusso” occidentale, ma sono un diritto riconosciuto come universale dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, che ne prevede l’attuazione sulla base dei diversi contesti socio-economici e delle risorse disponibili;
- di fronte allo scandalo della morte in solitudine, Madre Teresa non fa un progetto sulla carta, e non aspetta di avere tutti i “requisiti assistenziali” a posto. Incontra i malati morenti nelle strade, non volta la faccia dall’altra parte, ma apre le porte, accoglie, lava le ferite, nutre, restituisce umanità e dignità;
- Hirday è aperto a tutti. Si è molto discusso se vi avvenissero “conversioni forzate”, ma molto più verosimilmente quello che fa la differenza del morire è lo sguardo, che vede la persona in tutta la sua preziosità e unicità al di là del degrado fisico. “Lavoriamo con i morenti e vediamo ogni giorno la resurrezione”, disse una volta Cicely Saunders, e anche che “gli operatori degli hospice non devono essere per forza credenti, ma essere persone capaci di amare”. In queste due donne straordinarie, che probabilmente non si incontrarono mai, risuonano elementi comuni di impressionante sintonia.
- Tutti coloro che hanno vissuto dal di dentro l’esperienza dell’hospice raccontano di aver ricevuto sempre molto di più di quanto possano aver dato. La reciprocità può essere davvero il primo riferimento etico che dà “valore” intrinseco alla cura, che non è mai semplice assistenzialismo o filantropia.
In conclusione, in un periodo storico in cui per le cure palliative si prevede uno sviluppo impetuoso che metterà in gioco -probabilmente- anche complesse dinamiche di interessi economici, è sempre più importante ritornare ai valori originari, alla capacità di “uscire” dai propri contesti alla ricerca delle nuove fragilità (il Covid ne è stato un drammatico esempio) e di mantenere solido quello sguardo sull’Uomo che lo fa considerare “persona viva” e “degna di cura” fino all’ultimo istante.
Con la forza, la determinazione, la “fantasia dell’Amore” e la capacità di uscire dagli schemi di Cicely Saunders e Madre Teresa di Calcutta, non a caso due donne.
cfr: F.Garetto - capitolo“Cenni storici internazionali” in: Libro Italiano Medicina e Cure Palliative, sezione I- (Poletto Editore, 2019)