È tempo di cambiare: revisione dell'SSN dopo i primi 40 anni
LA RICORRENZA
Il Paese è
frantumato in 3 aree e
non garantisce cure
in eguale misura a tutti.
La speranza di vita
in buona salute
è di 60,5 anni al Nord,
di 56,6 al Sud.
Di: Ernesto Bodini
Nonostante una buona dose di ottimismo (per chi ce l’ha) cosa ci attende in futuro in tema di Sanità e Assistenza? Studiosi ed esperti (politici compresi) in varie discipline se ne occupano da tempo, ma a tutt’oggi un orizzonte appagante non sembra essere così vicino, ed è anche per questa ragione che, come cittadino, paziente e opinionista azzardo alcune considerazioni. Anzitutto rievochiamo il concetto di diritto, termine che da sempre sta sulla bocca di tutti e, in un Paese democratico (finché lo sarà), è lecito pretendere quei diritti che non solo sono sanciti dalla Costituzione e all’occorrenza tutelati da nostri quattro Codici di Legge (CC, CPC, CP, CPP), ma anche da quel senso di libertà, civiltà e progresso che abbiamo conquistato nel corso dei decenni… all’insegna dell’Unità italiana.
Ma partiamo dalla Costituzione: l’art. 32 sancisce la tutela della salute come diritto fondamentale dell’individuo e interesse della collettività. In questo principio è bene sottolineare che è responsabilità dello Stato nazionale garantire la salute del cittadino e della collettività in condizioni di eguaglianza. È su ispirazione del sistema sanitario inglese (National Health Service - NHS), nato nel 1948, con lo scopo di prestare assistenza sanitaria gratuita a tutta la popolazione britannica), che in Italia il 23/12/1978 è stata istituita la Legge 833 istituendo il Servizio Sanitario Nazionale (SSN), una vera e propria conquista sociale durata ben quarant’anni, ma che da un po’ di tempo è oggetto di interminabili discussioni in fatto di mantenimento della stessa. Tre caratteristiche in particolare: destano perplessità: la generalità dei destinatari, ossia tutti i cittadini indistintamente; la globalità delle prestazioni che sono la prevenzione, la cura e la riabilitazione; l’uguaglianza di trattamento, ovvero l’equità d’accesso.
Ma ecco che a “disturbare” quello che credevamo un giusto e uniforme equilibrio, con la Legge n. 3 del 18/10/2001 la Riforma del Titolo V della Costituzione la tutela della salute è stata affidata alla legislazione concorrente tra Stato e Regioni, delineando un sistema caratterizzato da un pluralismo di centri di potere e ampliando il ruolo e le competenze delle autonomie locali: apertura al cosiddetto e consolidato federalismo.
Precursori di questa che io definisco “inversione del diritto unanime” furono il politico e storico Gaetano Salvemini (1873-1957), che sostenne appunto il federalismo; il sacerdote e fondatore del Partito Popolare Luigi Sturzo (1871-1959), che difese le autonomie locali; e il giurista Gianfranco Miglio (1918-2001), padre del primo progetto federalista della Lega.
Per tre decenni si è paventato il rischio di una possibile secessione e, per scongiurarla, troppo ottimisticamente a mio parere si è pensato di allontanarla con la Riforma del Titolo V della Costituzione voluta dal centro-sinistra nel 2001.
Il regionalismo, con le sue allargate autonomie ha creato il divario tra Nord e Sud, contravvenendo all’art. 5 della Costituzione stessa che testualmente recita: “La Repubblica una e indivisibile riconosce e promuove le autonomie locali”; l’art. 114 prevede l’istituto regionale e ne fissa minutamente le competenze; ma lascia la fattibilità delle province e dei prefetti, ossia l’istituzione-cardine dello Stato centralizzato mantenendone l’ordinamento. Da qui in poi, chi sta al potere propende per la centralizzazione e chi invece è all’opposizione è più orientato al mantenimento delle autonomie. Un dualismo conflittuale si direbbe, ma ciò nonostante “si impongono” le tematiche del regionalismo col sostegno dei tre governatori del Nord-Est: Veneto, Emilia Romagna e Lombardia. Ma non si era detto che apparteniamo tutti all’unica Nazione con gli stessi diritti (e doveri) proprio come enuncia la Costituzione? Sembra proprio di no perché, alla luce dei fatti, da quasi un ventennio le cose volgono all’opposto diversificando quei diritti che spettano tanto al piemontese quanto al calabrese; anzi, addirittura sono 21 i differenti sistemi sanitari. Tra le molte differenze, ad esempio, ve n’è una che fa riflettere ulteriormente: chi nasce in Calabria ha una aspettativa di vita diversa da chi nasce in Lombardia o in Veneto, tanto che il Paese è frantumato in tre aree non solo dal punto di vista geografico, ma anche da quello sanitario, tale da non garantire cure in ugual misura a tutti i cittadini. Inoltre recenti statistiche ci dicono che la speranza di vita in buona salute è di 60,5 anni al Nord e 56,6 anni al Sud; e che al Nord il 49,6% dei malati cronici si percepisce in buona salute contro solo il 36,6% al Sud.
Poi c’è anche il problema dei Livelli Essenziali di Assistenza (LEA), uno strumento (aggiornato dal Ministero nel 2017) con il quale lo Stato chiede alle Regioni di garantire alcuni servizi sanitari di primaria importanza per il cittadino, e ciò nel rispetto dei criteri di necessità, efficacia ed appropriatezza.
Ma purtroppo l’andamento non è in linea come dovrebbe essere, e ciò è verificabile in alcune Regioni (manco a dirlo del Sud) per la loro incapacità di erogazione delle prestazioni; da qui l’inevitabile fenomeno della migrazione sanitaria, in parte comprensibile, ma decisamente più dispendiosa soprattutto in termini economici e di sacrifici da parte dei pazienti, spesso affetti da malattie gravi ed anche rare. Potrei disquisire ad oltranza, ma per ragioni di spazio e di “opportunità” mi limito a sostenere che si tratterebbe di migliorare, se non invertire, questo sistema “ricreando” quella uniformità che stava alla base del SSN e ai principi costituzionali, retrocedendo al 2001; diversamente molti nostri connazionali saranno considerati degli “apolidi sanitari”, quindi costretti a ricorrere alla sanità privata (sempre più emergente, sia pur in parte convenzionata), o rinunciare a determinate cure (anche importanti) e dover dire grazie ad un Paese che era forse più unito nell’800…
Anche se sono in corso attività di ulteriori e possibili riforme (altrettanto urgente è la necessità di incrementare l’organico dei medici e degli infermieri e adeguare sia le condizioni normative che le remunerazioni stipendiali), al momento rimane l’amarezza di sapere che chi si ammala deve avere un proprio Santo in Paradiso che lo aiuti a cambiare la propria residenza e migrare in Regioni più virtuose, sia per avere più probabilità di essere curato che di vivere più a lungo…
Purtroppo il nostro destino esistenziale in tema di diritti è prerogativa dei politici (e non sono pochi), a molti dei quali si addice il motto latino: «Aures habent et non audient» (Hanno orecchie ma non sentono), e a mio avviso, farebbero bene a considerare (e fare propri) gli ultimi versi della notissima poesia di Totò, che per un miglior effetto, trascrivo in versione originale:
«Perciò, stamme a ssenti… nun fa’ ‘o restivo, suppuorteme vicino – che te ‘mporta?
Sti ppagliacciate ‘e ffanno sulo ‘e vive: nuje simmo serie… appartenimmo â morte!».
…ma meglio tradurre…
Perciò, stammi a sentire… non fare il riluttante, sopportami vicino, che t’importa?
Queste pagliacciate le fanno solo i vivi: noi siamo seri… apparteniamo alla morte!”
Queste pagliacciate le fanno solo i vivi: noi siamo seri… apparteniamo alla morte!”