Cosa ci ha insegnato la pandemia
L'ATTESA
Nelle speranze di tutti
l’avvio della campagna
vaccinale dovrebbe dare
un contributo significativo,
anche se graduale,
alla soluzione del problema.
Sarà così?
Di: Luigi Giovannini
Il titolo può a prima vista sembrare provocatorio, poichè dopo quasi un anno di pandemia, con centinaia di migliaia di morti in tutto il mondo, di milioni di persone precipitate nella povertà a causa della crisi economica indotta dalla diffusione del virus, è nelle speranze di tutti che l’avvio della campagna di vaccinazioni dia un contributo significativo, anche se graduale, alla soluzione del problema. Ed è anche una dimostrazione importante della capacità del ‘’sistema’’ di reagire all’eccezionale gravità dell’evento: un accesso tempestivo ai finanziamenti, l’accelerazione delle procedure, la collaborazione tra strutture pubbliche, centri di ricerca e imprese hanno più che dimezzato i tempi di realizzazione del vaccino, beninteso senza saltare nessuna verifica sull’efficacia e sicurezza del farmaco, ma agendo sull’efficientazione del processo.
Questa è certamente la prima e più importante ‘’notizia’’ che ciascuno di noi attendeva con ansia: l’inizio della fine dell’incubo e l’auspicato, graduale ritorno ad una vita normale. È comunque fuor di dubbio che un anno e più di lotta contro la pandemia lascerà tracce profonde nella società, nell’economia, nel mondo del lavoro, della scuola, della sanità, nelle nostre abitudini quotidiane, ecc… E questo vale a maggior ragione per il nostro paese che è arrivato ad affrontare la pandemia dopo anni di difficoltà, di mancata crescita economica e con un sistema socio-assistenziale messo a dura prova da anni di tagli di personale e riduzione dei finanziamenti.
Bastano poche macro-variabili per evidenziare che la situazione italiana, già tutt’altro che rosea prima della pandemia, necessiterà di attenzioni straordinarie per quantità e qualità degli interventi che si dovranno predisporre per evitare guai irreparabili.
Il debito pubblico, già pesantissimo, salirà ulteriormente dal 135% al 160% del PIL, che subirà a sua volta una contrazione di circa il 10% dopo anni di stagnazione. A questo occorre aggiungere alcune ‘’aggravanti di sistema’’: carenza di investimenti pubblici e privati, un significativo calo demografico (da qualche anno 100 mila unità in meno al netto dei flussi migratori), un costante invecchiamento della popolazione e una produttività stagnante ormai da un ventennio in particolare nella pubblica amministrazione.
In sintesi ci troviamo nelle condizioni di un maratoneta esausto a cui, sul filo del traguardo, venisse comunicato che la corsa è stata prolungata di altri 10 km.
Su questo scenario tutt’altro che rassicurante si è aperto l’ombrello dell’Europa, con un intervento poderoso in termini di finanziamenti a vario titolo (Recovery Fund, Mes, ecc) per un totale di 750 miliardi di Euro, di cui 209 riservati all’Italia. Risorse indubbiamente ingenti, che presuppongono (e impongono) un piano di interventi strutturali sui settori strategici, in grado di far recuperare al paese il ritardo accumulato negli ultimi 20 anni in termini di competitività, sicurezza, ambiente, ricerca/istruzione e naturalmente sanità, di cui la crisi pandemica ha posto in evidenza lacune pesanti, pur con differenziazioni significative tra le varie regioni.
Un aspetto va sottolineato su tutti: la pandemia ha reso (drammaticamente) evidente che la salute pubblica è elemento indispensabile per il benessere e la crescita economica e sociale del paese. Un sistema sanitario efficace e possibilmente efficiente non è da considerare prioritariamente un obiettivo da subordinare alle risorse finanziarie disponibili, ma una premessa fondamentale per ‘’assicurare’’ lo sviluppo economico. Detto in termini contabili, la sanità pubblica non deve essere considerata un costo, ma un investimento, e continuare ad investire nel presidio, nella ricerca e nella produzione farmaceutica e medicale (lo vediamo in queste settimane di avviamento della campagna vaccinale) è un fattore strategico per il futuro dell’Italia.
È evidente che quanto sopra può sembrare un controsenso in un periodo in cui nelle aziende sanitarie si stanno accumulando deficit pesanti dovuti a costi per adottare procedure e presidi di protezione per la popolazione e gli operatori sanitari e per garantire strutture e terapie adeguate a fronteggiare la malattia.
A puro titolo esemplificativo ricordiamo che un ricovero in terapia intensiva costa circa 3.000 €. al giorno e quindi un paziente sottoposto alla cura per qualche settimana può arrivare ad incidere sul bilancio dell’ospedale per decine di migliaia di euro.
Rispetto al loro budget storico si stima che le aziende sanitarie spenderanno almeno un 10% in più, che equivale ad una maggior spesa annua nell’ordine di 15-20 miliardi. È un maggior onere che sarà coperto e finanziato nel breve, ma che a medio termine occorrerà recuperare e sistematizzare in termini di investimenti e priorità.