"Le Parole che Curano" - Il viaggio incompiuto della "Dignità"
LA RUBRICA
Dignità,
parola mai sepolta
dalla polvere del tempo,
capace come la fenice di risorgere
anche nei momenti più bui della storia umana.
A cura di: Davide Deangelis
Nelle sue Ricerche filosofiche Wittgenstein ammoniva che per comprendere il senso profondo delle parole più importanti dell'intera cultura occidentale, fosse necessario farsi guidare, condurre, quasi trascinare da esse. È il caso di uno dei termini più nobili ed insieme controversi, spesso usati impropriamente o saccheggiati da strumentalizzazioni politiche; un vocabolo che ha alle spalle riflessioni filosofiche autorevoli e discussioni giuridiche ancora attuali; una parola mai sepolta dalla polvere del tempo, capace come la fenice di risorgere anche nei momenti più bui della storia umana. Questa parola, antica come l'uomo, si pronuncia dignità.
La vastità del suo significato, la pregnanza del suo senso, l'alterno pencolamento in diverse discipline o contrapposti campi del sapere, ci impongono un indugio filologico, che, come ebbe ad esprimersi Bartezzaghi, l'etimologia trasforma in rincorsa nel passato per consentire uno slancio nel presente ed un saldo atterraggio nel futuro.
Dignità, dunque, rappresenta un termine “ponte” tra culture e generazioni che affonda le sue origini nel pensiero greco e latino, subisce gli influssi giudaico-cristiani e attraverso la riflessione moderna giunge a noi oggi in sfumature e toni spesso contraddittori, che paventano il rischio di una regressione intellettuale del mondo contemporaneo. Il tema verbale della parola latina dignitas (genitivo dignitatis) viene fatto risalire ad una radice dic-doc, cui sono connessi termini costitutivi la dimensione sociale ed educativa come dicere (dire) e docere (mostrare, insegnare). Procedendo a ritroso, fino al mondo greco, apprezziamo il legame di quest'ultimo verbo con quello di δοκέω (credere) ed i sostantivi da esso derivati δόξα (opinione) e δόγμα (decreto, decisione, affermazione).
Proprio in contrasto con questi due termini, che rimandano rispettivamente a posizioni equivoche, personali o comunque non assolute, ed ad affermazioni non completamente dimostrabili, ma imposte con autorità o assunte come verità irrefutabili aprioristicamente, il greco conosceva il lemma αξίωμα (principio), a sua volta ricondotto al verbo άγω (spingere).
Un principio, dunque, è qualcosa che ha innanzitutto una valenza etica, che presuppone quella giuridica, in quanto cristallizzazione di convinzioni riconosciute universalmente, che spinge all'azione, in quanto urgenza morale, se non quando ontologica all'uomo, e pertanto superiore alle leggi, come insegna il dissidio di Antigone, o alle affermazioni imposte arbitrariamente, come evidenzia la tesi di Hobbes (auctoritas non veritas facit legem). Eppure l'uomo greco, per definire il concetto dignità, a detta di Costant non completamente coglibile dai moderni, usava la parola assioma, principio; o meglio era degno, era nobile, era di valore, beato, felice, realizzato (il Cristianesimo avrebbe detto Santo), colui che assolveva l'adempimento di quel compito personale che avrebbe difeso e conservato un principio che era eminentemente collettivo e sociale, e pertanto giusto ed insieme vero. La dignità ellenica aveva dunque una valenza squisitamente morale, che attraverso i modelli stoici, venne recepita dal mondo romano, più attento alle convenzioni sociali, alla morigeratezza, al contenimento degli atteggiamenti smodati ed alla temperanza soprattutto pubblica, in quanto segno di compostezza e disciplina.