I Quadretti - Il secolo di Primo Nebiolo
IL QUADRETTO
Di: Gianni Romeo
A cent’anni dalla nascita
il mondo dello sport
ricorda il dirigente torinese
che ha cambiato il modo
di pensare dei giovani,
dando all’atletica leggera
slancio e innovazione.
C’è stato, c’era stato un tempo che oggi mi sembra molto lungo, una ventina d’anni e più, in cui l’atletica aveva sfidato re pallone, era diventata <il calcio dell’estate>. Stadi affollati, campioni della corsa e dei salti che avevano la popolarità dei goleador più famosi.
Il miracolo di avere portato i giovani con i piedi in terra dimenticando per un paio di mesi all’anno i sogni impossibili verniciati di fragile gloria e troppo denaro aveva e ha ancora un nome, Primo Nebiolo. L’archivio della parrocchia torinese di San Gioacchino, Borgo Dora Vanchiglia, riferisce della sua nascita avvenuta il 14 Luglio 1923, giusto cent’anni fa, da Secondo e da Giuseppina Verrua, originari di Scurzolengo. Nel cimitero della piccola località astigiana un imponente falansterio ne conserva quanto resta dopo la scomparsa avvenuta nella notte del 7 novembre 1999 nella clinica romana Mater Dei.
La passione dell’atletica non accompagnata da risultati degni di nota nel salto in lungo, statura medio piccola, la laurea in legge e l’attività imprenditoriale presto mescolata all’attivismo nel club universitario cittadino, il Cus Torino: a quel punto il Primo Nebiolo giovane e pieno di idee spicca il balzo. Per un trentennio imporrà la sua figura di dirigente illuminato nel panorama dello sport italiano e mondiale. Gigante bifronte per potenza d’intuito e imbarazzante trasparenza di difetti, ha scritto così di lui Augusto Frasca che a lungo gli fu braccio destro, Nebiolo ha e impone le proprie idee.
Dilata le frontiere dell’atletica, non gli basta la vetrina delle Olimpiadi e a far data da Helsinki 1983 s’inventa i campionati mondiali, cancella l’ipocrisia del finto dilettantismo e ufficializza ricchi premi in denaro per gli atleti, sfida la più plateale delle impopolarità non cedendo un millimetro alla pretesa dei padroni del calcio, gli Agnelli in testa, di edificare gli stadi di Italia ’90 senza il contorno delle corsie di atletica, segno di civiltà.
Diffonde nel mondo uno dei suoi fiori all’occhiello, le Universiadi.
Porta i cinesi a Torino all’edizione 1959 della manifestazione aggirando abilmente il divieto dello stato italiano che ancora non riconosce la nuova realtà dell’immenso Paese orientale.
Vince una difficile scommessa organizzando a Torino in pieno agosto la finale di Coppa Europa e riempie lo stadio Comunale nell’assolato weekend con 90.000 spettatori.
Ma va anche oltre, l’atletica è cultura. Blinda le porte ministeriali perché la regina degli sport abbia un ruolo prioritario nei programmi di educazione fisica, dà spazio come nessuno ai Maestri dello Sport, sostiene in prima persona un Centro Studi invidiato nel mondo.
È un vulcano in eruzione perenne, porta il messaggio vitale dello sport e dell’atletica tra le croci e le atrocità di Sarajevo, nella polveriera di Belfast, tra le lacerazioni ambientali della sudafricana Soweto, mette in atto un piano sistematico di interventi a favore di nazioni e località disagiate, fa costruire impianti sportivi e manda tecnici preparati in Asia, in Africa per i giovani del posto, senza che debbano andare a cercare altrove.
Forse il mondo politico deve imparare qualcosa dallo sport…
Dai campionati mondiali organizzati a Roma nel 1987 la sua stella declina.
È ambizioso, molto, difetti ed errori vengono al pettine, gli è preclusa la strada verso il vertice del Coni, alla guida dell’atletica mondiale il suo passo assume il ritmo di una dittatura che non piace. I nemici aumentano, la salute vacilla. Muore a 76 anni.
L’Italia dello sport che sa valutare senza pregiudizi ancora oggi gli riconosce, al netto dei suoi errori, il merito del dirigente sportivo più audace e innovativo dell’ultimo mezzo secolo.