L'abnegazione di Albert Schweitzer, medico e filantropo in Gabon
Mentre la pandemia sta ancora distanziando gli esseri umani, creando fazioni e contrasti che sembrano non finire, può essere utile rievocare l’opera del medico alsaziano (1875-1965), esempio di elevata umanità in quanto poneva al primo posto l’uomo sofferente. Chi legge questo articolo, anche se non appartenente alla Medicina, non può eludere la conoscenza di questa nobile figura, con l’auspicio di vedere in ogni nostro simile che ci cura, colui (o colei) che annulla la sofferenza, non solo con i farmaci, ma anche con la parola quale sostegno di grande conforto. Ecco, qui di seguito, una breve rievocazione del pioniere nel trattamento delle malattie gravi e “urgenti” della popolazione africana.
Già nella sua autobiografia “Ma vie et ma pensée” il dottor Albert Schweitzer annotava che all’età di 21 anni aveva deciso di “vivere per la scienza e per l’arte” sino ai trent’anni e di “consacrarsi in seguito ad un servizio puramente umano”. Voleva diventare medico per poter lavorare senza essere costretto a parlare e, in Africa, la presenza di un medico corrispondeva al bisogno più urgente (una sorta di intervento di “emergenza”, così si può intendere per l’epoca). Mantenne e concretizzò questo suo proposito.
Nell’ottobre 1905 si presentò, in qualità di studente, al preside della Facoltà di Medicina di Strasburgo e, conscio dell’impegno che avrebbe dovuto affrontare, annotava nelle sue memorie: «[…] così ora inizio una lotta contro la fatica ed il tempo che durerà parecchi anni». Nel febbraio 1912 ottenne l’autorizzazione ad esercitare la pratica medica. Trascorse la primavera a Parigi per seguire dei corsi di medicina tropicale e, nel contempo, si dedicò alla raccolta di materiale tecnico-sanitario che gli sarebbe servito per la sua attività a Lambarènè (uno sperduto villaggio del Gabon), dove giunse nel 1913 con la moglie Helénè Breslau, che per molti anni lo coadiuvò come infermiera. Sino al 1917 e dal 1924 in poi si dedicò prevalentemente all’attività medica e chirurgica, che fu incrementata con l’arrivo del dott. Marc Lautenburg. «Il dottor Schweitzer, nel campo della scienza medica – ha precisato più volte Adriano M. Sancin, chirurgo e ginecologo, già segretario nazionale dell’Associazione Italiana Albert Schweitzer (A.I.A.S.), che tra l’altro si dedicò per oltre trent’anni ad attività organizzative nell’ambito dell’assistenza sanitaria nei Paesi in via di sviluppo dall’Africa all’Estremo Oriente – non fu un genio e non ha mai inventato nulla. Vanno quindi eliminate certe idee sulla sua genialità riportate varie volte dai media, male informati ed alla ricerca di notizie sensazionali e quantomeno infondate. Quello che invece ci stupisce di Schweitzer, e ciò vale per tutte le sfere della sua attività, non è tanto la sua capacità geniale quanto la pazienza di apprendere. Una pazienza sostenuta indubbiamente da una straordinaria forza di volontà e favorita, pure, come egli stesso affermava, da una buona dose di fortuna».
I principali interventi riguardavano ernie giganti, elefantiasi (malattia provocata dall’ostruzione dei vasi linfatici da parte di microfilarie), fibromi uterini, gozzi, piaghe e ferite causate soprattutto dall’attività di disboscamento. Diversi i casi disperati. Si operava in anestesia generale o locale e i pazienti, ben presto, si resero conto che nessuna magia o farmacopea africana li avrebbe potuti guarire meglio. Nel 1939 gli interventi furono 700.
Contro le patologie come la filariosi, malaria, malattia del sonno, lebbra, ulcera fagedenica, affezioni intestinali, dissenteria, Tbc polmonare o ossea, avitaminosi, etc., venivano usate sostanze biochimiche sperimentate e prodotte con rigore medico dall’industria farmaceutica d’oltre oceano. Gli ammalati arrivavano da villaggi che distavano centinaia di chilometri dall’ospedale, o lungo il fiume in canoa o percorrendo le piste che attraversavano la foresta vergine. «Dopo un viaggio di 400-500 chilometri – osservava Schweitzer – arrivavano in condizioni pietose, spesso disperate, affamati, denutriti; e per varie settimane, prima di operarli, dovevamo nutrirli e metterli in sesto».
In mancanza di denaro ai pazienti veniva richiesto un contributo in natura e lavoro. Senza scendere ulteriormente in dettagli, si può immaginare quali erano le difficoltà di organizzazione e funzionamento di un ospedale nel cuore dell’Africa agli inizi del secolo scorso, creato dal nulla in un habitat ed un clima ostili, senza collaboratori tecnici competenti.
Anche se Schweitzer non scoprì nulla in ambito medico, sotto certi aspetti è da considerarsi un pioniere nel trattamento di alcune patologie tropicali: fu il primo, ad esempio, che introdusse nell’Africa equatoriale dagli USA, il Promine ed il Diasone, due prodotti per il trattamento della lebbra. Fu il primo pure a sostituire l’Atoxyl e l’Arseno benzolo (farmaci dagli effetti collaterali pericolosi e inadatti a distruggere i microrganismi che avevano già invaso le cellule del sistema nervoso centrale) con il Germanyl, il Moranyl ed il Thyparsamide, molecole che, grazie alla scoperta della statunitense dottoressa Pearce, avevano rivoluzionato il trattamento della malattia del sonno.