La ferita e la cura... Ripensando il Covid 19
IL PENSIERO
Lo sapevamo:
di essere fragili,
di lavorare sempre sul filo
di risorse limitate,
di non avere piani strutturati
di prevenzione e
di gestione delle emergenze.
Ma c’era bisogno di qualcosa di improvviso, inatteso, perché tutti se ne accorgessero.
Di: Ferdinando Garetto
Improvvisamente...
Febbraio - Marzo 2020: in un attimo... Un whatsapp, fra i tanti di quei giorni, di un collega, gastroenterologo in un ospedale torinese: “Che disastro. Non credevo così. Aperti altri 3 reparti Covid, sale operatorie utilizzate per intubati... Come essere in un campo di battaglia con quelli segnati su cui non devi più fare nulla. Ieri dei 6 trasferiti 4 morenti di cui uno deceduto dopo meno di un'ora dall'arrivo...”.
Morire di pandemia. Morire nelle rianimazioni. Morire da soli. Senza un saluto. Non c’era bisogno del Covid (SARS-Cov-2)... ma ha sollevato il coperchio.
La tempesta... e dopo
Il “diario” di marzo e aprile 2020 è il racconto della “prima ondata”. Emozioni, paure, riflessioni... L’infinito dolore delle morti in solitudine e isolamento. L’impressione di essere tutti insieme ad affrontare una grande sfida quotidiana, ma anche la speranza che da quel grande “dolore del mondo” potesse nascere qualcosa di nuovo, anche per il “dopo”.
In quelle mattine o in quelle sere in cui nella città deserta del lockdown andavamo al lavoro, tutto intorno quel silenzio sembrava parlare di “cura”, di “protezione reciproca”. Sembrava quasi di percepire il lavoro nascosto di una società che si preparava a ripartire sulle fondamenta di nuovi paradigmi, nella politica, nell’economia, nella scuola. Ma è stato davvero così?
Tutto quello che avremmo dovuto imparare... Tutto quello che non abbiamo imparato
L’onda sembrava passata... Ma una nuova forma di sofferenza si faceva strada nella nostra società dalla memoria corta: alla sacrosanta voglia di ricominciare e ripartire iniziava a sovrapporsi una sorta di “fastidio” a sentire ancora parlare di Covid… Anche fra i colleghi era molto diverso l’atteggiamento fra chi aveva vissuto “dentro” un reparto Covid e chi aveva continuato a lavorare in reparti “normali”.
E così, dopo una pazza estate...
L’insostenibile stoltezza dei negazionisti. Le ferite del Covid: solitudine, delusione, rabbia della seconda ondata
A fine ottobre 2020 i reparti Covid hanno riaperto e presto si sono riempiti a dismisura. «Vero che non è come marzo?». Chissà perché abbiamo sempre bisogno di risposte consolatorie, di fronte alla nuova emergenza che tanti hanno cercato di negare. A volte per paura, a volte per ideologia. Ma dopo i primi giorni la risposta più sincera sarebbe stata: “no, non è come marzo: è peggio di marzo!”
Era peggio di marzo perché ci siamo trovati tutti più stanchi. Perché allora affrontavamo tutti uniti un’emergenza, mentre nella seconda ondata ci siamo sentiti traditi e offesi vedendo tutto ciò che non era stato fatto per potenziare la sanità, la scuola, i trasporti, i servizi. È stato peggio per la gente senza memoria che prima manifestava senza mascherina e poco dopo diceva che bisognava fare di più. Sulla pelle di quelli che anche grazie a loro e alle loro insulse manifestazioni si ritrovavano nelle Terapie Intensive e nelle Rianimazioni.
La “pandemic fatigue”: male del secolo?
È un malessere diffuso, che pesa come un macigno, che sembra individuale, ma che poi ritroviamo identico nel collega, nell’amico, nel familiare, nei pazienti affetti da “altre” gravi patologie che non siano il Covid.
Si chiama “Pandemic Fatigue”: ne è affetto il 60% degli europei secondo alcune stime. In particolare la fascia di età dei 50-60enni, quelli che sono schiacciati dalla preoccupazione per i genitori, i figli, il lavoro, la propria salute. È una vera e propria malattia sociale, che lascerà danni a lungo termine, se non opportunamente curata.
E non dimentichiamo che già alcuni anni fa l’Organizzazione Mondiale della Sanità aveva segnalato la grave emergenza delle sindromi depressive, la più diffusa patologia al mondo (non solo quello industrializzato). Anche in questo caso il Covid-19 ha probabilmente fatto esplodere qualcosa che c’era già, quel “dolore del mondo” da povertà relazionale che nessun bene materiale può lenire.